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Perchè non compro più da Zara, H&M e low cost in generale

Sono stata per anni una consumatrice compulsiva. Ho acquistato non perché mi servissero realmente nuove cose, ma per riempire dei vuoti interiori, per noia e poi perché mi sono fatta infinocchiare dal marketing, che mi spingeva non verso l’appagamento di un bisogno reale, ma verso un continuo desiderio di cose nuove, che puntualmente mi lasciava insoddisfatta.

Nel mio ultimo post vi ho parlato della svolta minimal che ha preso la mia vita. Ho iniziato ad alleggerirmi partendo proprio dall’abbigliamento, perché i miei armadi erano stracarichi di roba che non utilizzavo. E, in modo del tutto paradossale, mi ritrovavo puntualmente senza nulla da mettere, ripiegando sempre sulle solite scelte. Il mio obiettivo è quello di riuscire a costruirmi un capsule wardorbe, fatto di capi essenziali che posso mixare tra di loro e che mi facciano sentire a mio agio, ma devo ancora lavorarci su.

Il primo passo da fare è stato eliminare (nel mio caso) sei – e dico sei – sacchi neri di abbigliamento che ho regalato. Non buttato, perché moltissime cose avevano ancora il cartellino attaccato ed il resto era ancora in ottime condizioni, ma regalato si. Ad amiche, parenti e per finire a famiglie bisognose. Dopo questo prima fase di decluttering mi sono sentita benissimo, e soprattutto leggera. Ho ricominciato a respirare.

Non sono ancora arrivata a togliere dall’armadio tutto ciò che non mi serve, ci sono ancora abiti a cui sono legata sentimentalmente che proprio non riesco a lasciar andare, anche se sono consapevole che non verranno mai utilizzati. Il processo di crescita però passa anche da questo, dall’accettare i momenti in cui non si è ancora pronti e riprovare.

Il secondo passo è stato quello di smettere di comprare. E questa è stata la parte su cui ho dovuto lavorare di più, perché togliere dall’armadio cose con ancora il cartellino attaccato mi ha fatto riflettere molto, più dei sei sacchi complessivi. Parliamoci chiaro, andare da Zara o da H&M è divertente, mi fa sentire come una bambina al parco giochi. Tante cose, tanti colori, e poi – soprattutto –  prezzi piccoli, talmente piccoli che non mi sento in colpa ad acquistare un altro vestito, anche se nell’armadio ce ne sono 50, di cui molti mai indossati.

Ma come può Zara, o H&M, o qualsiasi altra catena low cost, vendermi un abito ad un prezzo così piccolo e guadagnarci comunque?

E qui arriva Netflix con il documentario The True Cost, che tutti dovrebbero vedere. Di questo documentario ne ho sentito parlare a lungo, ma per qualche motivo non mi ero mai davvero interessata alla sua visione. Poi un giorno Netflix me lo propone nei consigliati, e finalmente l’ho affrontato. Ed utilizzo “affrontato” con cognizione di causa, perché The True Cost non è una puntata di Friends, è un cazzotto nello stomaco, di quelli che arrivano quando non te l’aspetti e quindi non hai nemmeno messo in uso gli addominali per ripararti e un po’, e ti lascia steso a terra, completamente senza fiato.

The True Cost parla del fast fashion, spiegando tutti i meccanismi che si celano dietro questo mondo patinato e alla moda. Passando dagli Stati Uniti all’India, la Cambogia e il Bangladesh, dove gli abiti vengono prodotti da donne sottopagate e sfruttate che lavorano in condizioni inenarrabili, questo documentario è una secchiata di acqua gelida. Perché ci spiega, senza tanti giri di parole, che il nostro shopping compulsivo, il nostro acquistare l’ennesimo abito che non ci serve, o la t-shirt super scontata con gli unicorni glitterati, ha delle conseguenze. Umane ed ambientali.

Umane perché i lavoratori sono sottoposti a dei regimi che rasentano la schiavitù, senza diritti né tutele, in condizioni di sicurezza talmente precarie che nell’incidente del Rana Plaza sono morte più di mille persone.
Mille persone, è impensabile. Più di mille vite spezzate per il nostro consumismo sfrenato, per aziende occidentali che hanno delocalizzato per spendere meno, abbassare i prezzi, la qualità, gli standard. Per creare capi d’abbigliamento che useremo poco, o forse mai, nati comunque per avere una breve durata e resistere a pochi lavaggi, perché bisogna fare immediatamente spazio alla nuova collezione, che uscirà dopo solo una settimana.

Vogliamo parlare poi dell’impatto ambientale?  La moda è tra le più inquinanti “industrie” del mondo, seconda solamente alla produzione di petrolio. L’acqua che viene utilizzata per la produzione della moda non è calcolabile, come non lo sono le quantità di Cromo 6 che vengono sversate nel Gange per la produzione di tessuti e cuoio a basso costo, che va ad inquinare quell’acqua che verrà utilizzata per irrigare e coltivare. Non sono calcolabili nemmeno le quantità di pesticidi utilizzati per le coltivazioni di cotone, ma si tratta di numeri enormi. Che fanno paura. Come pure la mole di abiti in fibre sintetiche che dismettiamo alla velocità della luce, e che non si degradano, rimanendo per centinaia di anni nelle discariche.

Io non voglio più essere complice di questo modello, perché come consumatore posso fare la differenza. E come sette anni fa ho deciso di non utilizzare più cosmetici tradizionali perché inquinanti, allo stesso modo ho deciso di non voler più sostenere certi tipi di aziende.

Compro meno, molto meno. E compro meglio. Cerco di farlo quanto più possibile da aziende piccole che producono tutto in Italia e che non si limitano ad apporre solo l’etichetta Made in Italy mentre tutte le altre fasi del processo produttivo avvengono altrove. Mi sono informata tanto dopo la visione di questo documentario, ed ho scoperto che si può fare moda in modo sostenibile, e se siete interessati ve ne parlerò in un altro articolo.

Questa è stata la mia scelta, e ne sono orgogliosa. E sono assolutamente certa che la visione di The True Cost non lascerà indifferente nessuno di voi.

Se lo avete già visto vi va di raccontarmi la vostra esperienza?

(17) Commenti

  1. Ciao Vanessa! Non ho ancora visto questo documentario ma lo farò presto. Grazie per aver scritto questo articolo, avevo già deciso di non acquistare più vestiti in questi store e conoscere questa realtà ha rafforzato questa convinzione.

    1. Vanessa dice:

      Stefania, grazie! Dopo averlo visto fammi sapere cosa ne pensi, mi farebbe davvero piacere!

  2. Roberto dice:

    Ciao Vanessa, seguito il consiglio, visto il documentario. Già ero al corrente di tutto ciò ma per il solo fatto di aver accompagnato la visione con nausea incessante non dimostra altro che il “per non dimenticare ” non guasta mai. È aberrante, il solo pensare alle conseguenze legate ad un fast acquisto fashion, ripeto è aberrante. Ma forse lo è di più il non porsi il problema. Una disdicevole ottusità che maschera una totale ignoranza. Per le vite umane, per l’ambiente, per la maledetta eguaglianza. Non sarà la dichiarazione d’intenti dei grandi brand a salvarci ne tanto meno la ragazzina nordica sponsorizzata dall’ikea. La strada sarà ancora più difficile ma confidiamo nella consapevolezza al dettaglio. No fast fashion si al poco ma buono. Possiamo farcela. Buona serata e grazie.

    1. Vanessa dice:

      Ciao Roberto, grazie per essere passato e per aver condiviso con me le tue riflessioni. E’ vero, quello che stiamo facendo è aberrante, ma confido che parlando e sensibilizzando quante più persone possibili, si arrivi al punto di svolta, che è quello di cui abbiamo effettivamente bisogno. Il nostro stile di vita non è più sostenibile, sotto troppi punti di vista. Possiamo farcela, hai ragione. Io ci voglio credere…e se grazie alle mie parole anche solo una persona avrà preso coscienza di quello che sta accadendo, allora sono felice di averlo scritto.

  3. Grazie per questo articolo sono perfettamente in sintonia con il tuo orndiero ed ho fatto lo stesso percorso. Il mio armadio e quello dei bambini ha il minimo indispensabile ed acquisto con oculatezza, e si vive molto meglio! Ci basta così poco per essere felici .

    1. Vanessa dice:

      Hai perfettamente ragione Stefania, con meno cose si vive meglio. Per questo mi sono avvicinata tantissimo al minimalismo.

  4. Ciao Vane!
    Non l’ho ancora visto a dire la verità, ma seguendo Carotilla su YT sapevo queste cose, proprio perché aveva spiegato molto bene tutto. E devo dire che da quando ho sentito le sue parole il mio approccio allo shopping in generale è cambiato. Ancora non ho smesso di comprare in alcune catene (perché non ho un lavoro che mi consente grosse spese), però cerco di limitare il più possibile i danni, comprando meno e soprattutto solo cose che sono certa sfrutterò. Spesso faccio scambi con le mie zie di abiti proprio per evitare lo spreco e di inquinare e soprattutto cerco di non acquistare online i capi d’abbigliamento: comprando così poco, fare un ordine per un solo capo sarebbe inquinante allo stesso modo, per cui preferisco acquistare direttamente nei negozi fisici.
    La questione è complessa. Se tutti avessero più coscienza di come vanno queste cose, forse le cose cambierebbero davvero.

    1. Vanessa dice:

      Ile io lo dico da un sacco, come connsumatori abbiamo un potere enorme. Possiamo fare davvero la differenza. Cerca online il documentario, anche se non hai Netflix. Anche io queste cose in parte le sapevo già, ma ti assicuro che vederle mi ha fatto tutto un altro effetto.

  5. Ottimo post Vanessa, brava!! Da mesi ci rifletto per quanto riguarda la cosmesi, non tanto nella dicotomia bio/non bio, quanto nello spreco assurdo che viene fatto per essere sempre cool su Instagram, con milioni di prodotti che non verranno usati mai, se non per fare una foto. Dove stiamo andando?

    1. Vanessa dice:

      Ciao Carlotta
      purtroppo si, è una corsa sempre più veloce a mostrare l’ultimo prodotto, e le aziende ( tutte ) da questo punto di vista non ci risparmiano nulla, con collezioni sempre nuove, prodotti in uscita uno dietro l’altro, sempre più velocemente. Io ho davvero paura di come andremo a finire, il nostro stile di vita non è più sostenibile, e se non facciamo un passo indietro per tornare verso una vita con meno cose arriveremo al punto di non ritorno. Questo pianeta non è fatto per essere consumato e distrutto come invece stiamo facendo.

  6. vincenzo dice:

    io compro tutto al mercatino dell’usato. 10 euro per una vagonata di roba.
    quanto all’armadio minimal, non ocncordo, non riesco. per me vestirmi vuol dire esprimermi, e mi secca non poter indossare combinazioni nuove.

    1. Vanessa dice:

      Ciao Vincenzo, ben arrivato qui!
      Quello dell’armadio minimal non vuole essere assolutamente un diktat, come non lo è nient’altro all’interno del post e del blog in generale. Per me sta diventando una scelta naturale, dettata anche dal mio crescente interesse per il minimalismo. Ovvio che poi ciascuno di noi deve fare il suo percorso =) Già acquistare tutto al mercatino dell’usato è un passo importantissimo

  7. Raramente ho acquistato dai hm e zara, vuoi che fuori mano rispetto alla mia zona, sia perchè, le poche volte che ho acquistato, ho notato la scarsissima qualità.
    Detto questo.
    Mia madre ha fissazioni su alcuni “brand” (non so se posso fare nomi); comunque marchi costosi. Mi è capitato di accompagnarla e leggere che, i costosissimi capi, fossero fabbricati in: Bangladesh, Marocco, Turchia.

    1. Vanessa dice:

      Ciao Diletta,
      tranquilla scrivi pure che qui non c’è alcuna censura =)
      Purtroppo si, molti brand anche di lusso producono in regioni povere. L’unica cosa che gli perdono è il non fare 52 collezioni l’anno come zara

  8. Grazie per questo articolo.
    Non ho ancora visto il documentario ma lo farò presto.
    Nel mio piccolo faccio anche io la mia grande guerra ma la mia attenzione è rivolto soprattutto a cibo e plastica.
    Mi potresti dire – o fare un articolo – sui marchi di abiti italiani e make up per piacere?
    Lo leggerei con molto interesse e…come spunto!
    Grazie
    Pupi

    1. Vanessa dice:

      Ciao Pupi =) Anche io sto attenta alla plastica e cerco di fare del mio meglio per sensibilizzare anche chi mi sta accanto
      Sul blog di We Are Addicted to Bio abbiamo parlato spesso di moda sostenibile, trovi gli articoli qui http://www.waatb.it/?s=moda
      mentre se ti fai un giro su tutto il blog parliamo di brand di cosmesi ( anche italiani e piccole realtà ) che si occupano della produzione di cosmetici bio ed ecosostenibili

  9. Laura Fanton dice:

    Hai scritto esattamente quello che è il processo di consapevolezza che sto portando avanti pure io. Ho l’armadio che scoppia e indosso sempre le stesse cose, non riesco nemmeno a vedere o a ricordare cosa ci sia sugli appendini o nei cassetti. Ho comperato tanto e spesso in maniera compulsiva ed emotiva, ma adesso sto cercando di non entrare nemmeno nei negozi perché qualcosa di carino lo trovo sempre e ho paura di cascarci di nuovo (della serie “solo questa cosa qui e poi smetto”). Anche io ho visto The True Cost e lo consiglio a tutti. Il mio cammino mi sta portando a rilevare un atelier storico della mia città, Padova, dove continuerò la tradizione di questo magnifico lavoro: del capo su misura, fatto con cura e qualità a mano pensato per durare. Spero anche che in qualche anno riusciremo ad utilizzare molti tessuti ottenuti da materiali riciclati. Grazie dell’articolo: molto bello e l’ho sentito molto mio!

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